Così è stato per il principio stesso di rappresentanza, in occasione dell’indecente battaglia di agosto per la liquidazione del Senato come istituzione elettiva. Così è per il rapporto tra Potere Legislativo e Potere Esecutivo – tra Parlamento e Governo -, con l’umiliazione sistematica del primo e l’assolutizzazione del secondo, umiliato a sua volta nella sua collegialità e monocratizzato nella figura del Premier (vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto detta la Costituzione). Così è, d’altra parte, per la natura e il ruolo dei partiti politici, a cominciare dal suo, il Pd, il quale ha subìto, sotto l’effetto dell’ elettrochoc renziano, una vera e propria mutazione genetica trasformandosi, alla velocità della luce, da aggregato eterogeneo di gruppi d’interesse e di amministratori (“partito di massa” aveva cessato da tempo di esserlo) in “partito del capo” e, tendenzialmente, “partito unico della nazione”. Struttura amorfa, risucchiata d’autorità in alto, fuori dalla società ma anche dal Parlamento. Appendice del Governo e soprattutto del suo Premier, in attesa di essere sciolto nel serbatoio bipartisan che già emerge dall’omologazione antropologica degli elettorati che furono, fino a ieri, di centro-destra e di centro-sinistra. E che tendono ormai, nei fatti, a diventare un’unica platea plebiscitaria (e pubblicitaria), dopo la stipulazione di quel Patto del Nazareno che riconsegna a un leader squalificato e pregiudicato, in evidente decadenza, il ruolo di partner costituente. E che ipoteca pesantemente il futuro per quanto attiene alle più alte cariche dello Stato.
Sotto questa luce, la vicenda parlamentare della mozione di fiducia sul Jobs Act costituisce un punto di osservazione e di verità straordinario. Una residua istituzione rappresentativa – uno dei due rami del Legislativo – costretta ad approvare a forza (con la minaccia mortale della caduta del Governo e della possibile fine della legislatura) una delega in bianco (destinata ad essere concretizzata unilateralmente dal Governo) relativa alla liquidazione (pratica e, cosa ancor più grave, simbolica) di storiche tutele del lavoro, resa nota la notte precedente il voto, con un pronunciamento pressoché unanime del partito che dovrebbe avere nel proprio dna, se non altro per via degli antenati, il riferimento al movimento dei lavoratori, e con la cooperazione “attivamente passiva” dei senatori berlusconiani assenti al momento del voto. Se si voleva una prova lampante del processo di assorbimento del Parlamento dentro (e sotto) il Governo, e dello “sfondamento” di ogni residuo di autonomia all’interno dell’ex Partito democratico (dell’impotenza della sua cosiddetta “sinistra”), qui la si è avuta. Nel giro di un solo giorno si è potuto assistere pressoché in diretta, alla rappresentazione del processo di verticalizzazione del potere (e della sua personalizzazione in chiave plebiscitaria) che sta nel progetto e soprattutto nella pratica del renzismo e delle forze che senza comparire ne scrivono il copione. Contemporaneamente, dai brandelli di un dibattito sgangherato e frettoloso, si è potuto intravvedere, inquietante, il profilo del nuovo immaginario sociale che avanza, rovesciamento di tutti i valori, modificazione della costituzione materiale prima che di quella formale, con il Profitto, il Business, l’Impresa a fondamento di una Repubblica ormai post-democratica, e il Lavoro, le donne e gli uomini che lo eseguono, ridotti non solo a variabile dipendente, ma a possibile minaccia, con i loro diritti considerati blasfemamente “privilegi”, alla “libertà d’impresa” e all’attrattività degli investimenti. Rovesciamento simbolico, appunto, e proprio per questo tanto più devastante del nostro stato di civiltà .
Le conseguenze politiche di tutto questo – se si condivide il quadro analitico – sono evidenti, e terribilmente impegnative: siamo in presenza di una grave “emergenza democratica” di fronte a un processo che tende a produrre una vera e propria mutazione genetica dell’assetto politico-istituzionale del Paese e del sistema del partiti. Esso sconvolge il tradizionale panorama politico incentrato sulla contrapposizione bipolare centro-destra/centro-sinistra, categorie travolte ora dalla trasversalità del progetto e della pratica renziana. Modifica radicalmente il quadro delle identità politiche, svuotando di significato e rendendo anzi ambigua e deviante l’attribuzione della qualifica di “sinistra” (per quello che ancora può significare), al Partito democratico. E crea un’inedita necessità di mobilitazione capace di porsi all’altezza della sfida che viene lanciata.
Quando diciamo “inedita capacità di mobilitazione” intendiamo dire che non si tratta di un progetto “testimoniale”. Della costruzione di una “piccola casa” per esuli dalle tante vicende politiche della sinistra. O di un’asta a cui appendere stinte bandiere. Intendiamo dire ciò che un’emergenza richiede: il massimo possibile di forza da mettere in campo per invertire una tendenza, per fermare un’azione di devastazione istituzionale e culturale, per scongiurare un pericolo che si avverte potenzialmente irreparabile, per arginare la devastazione di un patrimonio culturale condiviso, e per contrapporre a tutto ciò un sistema di valori e un modello di pratica all’altezza dei tempi. Un fronte più ampio possibile da costruire nella chiarezza su ciò che si vuole contrastare e nella apertura su ciò che si intende unire.
In quest’opera è importante la capacità di opposizione ai singoli passaggi, nelle diverse sedi, dal Parlamento alla piazza, ai luoghi di lavoro e alle aule scolastiche. Per questo siamo e saremo sempre solidali con chiunque, in ogni sede, metta pietre d’inciampo al progetto renziano-berlusconiano che nel pactum sceleris del Nazareno ha trovato la propria sanzione. Ma ancor più importante, perché da essa dipende la possibilità di farcela davvero, è l’elaborazione di un’ effettiva alternativa al renzismo. Di una risposta credibile, adeguata nelle forme e nei contenuti alla sfida che esso apre, capace di coglierne i punti di forza e di rovesciarli, non solo svelando l’inganno (che c’è sempre) ma offendo soluzioni praticabili qui ed ora, e soprattutto offrendo un’immagine di noi diversa da quella che ci accompagna da tempo e che ciclicamente ritorna.
Il principale punto di forza di Renzi è la crisi, come si è detto. La sua stessa gravità . Di più: la sua apparente insuperabilità senza l’ intervento straordinario di una figura salvifica in cui “credere” (e poi magari anche obbedire se non combattere). Il mito, appunto, dell’”ultima spiaggia”, del “dopo di lui il diluvio”, che blocca ogni smottamento, sutura ogni linea di frattura, sana ogni dissenso interno e ogni ribellione esterna. Dobbiamo contrapporgli una linea di uscita, se non dalla crisi – che è endemica di questo capitalismo globale e in particolare nel modello europeo – almeno dall’emergenza. Un programma radicalmente altro rispetto a quello dettato da Bruxelles e da Berlino e fatto proprio dal “bisbetico domato” Matteo Renzi. Pochi punti, chiari come facemmo con i 10 punti della Lista, a cominciare dalla questione del debito e del suo necessario “consolidamento”, dalla rottura dei patti capestro europei e dal superamento del vincoli del fiscal compact, da un programma eccezionale per l’occupazione, per la messa in sicurezza del territorio, per la ristrutturazione energetica, per la rappresentanza dei lavoratori in fabbrica e il superamento vero, non retorico, della jungla contrattuale tra gli “atipici”… Da portare e discutere tra la gente, non tanto o comunque non solo nelle nostre solite assemblee che radunano troppo spesso i già convinti.
Il secondo punto di forza di Renzi è l’evocazione sistematica, ossessiva, della rottura – del “nuovo inizio”, del “cambiar verso”, della “rottamazione” appunto – inserita nel quadro del peggior continuismo (cosa, se non la sintesi del peggio dell’ultimo quarto di secolo è il Patto del Nazareno?). L’assunzione dei codici linguistici propri del “populismo di opposizione” – dei suoi luoghi comuni, dei suoi j’accuse, delle sue domande di tabula rasa – per far da propellente al suo “populismo di governo”. Il lessico del ribelle come scrittura del libro del potere. Evocazione retorica, naturalmente, illusoria, manipolante, ma che affonda le radici in un cratere di disperazione, nell’impossibilità di vedere un futuro, nella consapevolezza che “così non si può andare avanti”, che “ci vuole uno scossone” che se non può più venire dal basso, che almeno venga dall’alto, nell’affidamento superstizioso all’intervento salvifico di chi “può”. Quel cratere, che Renzi non può prosciugare, può soltanto “usare” al proprio fine personale, dovremmo riempirlo noi, almeno in parte. A quella domanda di rottura giustificatissima dovremmo riuscire a rispondere noi.
Ma qui intervengono i nostri punti di debolezza. Il primo del quali siamo noi stessi. La nostra storia deragliata. La nostra antropologia lesionata. I vizi acquisiti e forse anche quelli originari. La principale ragione della nostra difficoltà ad attirare tutti quelli che potenzialmente ci sarebbero, e di trattenere tutti quelli che si avvicinano, è l’immagine che proiettiamo. Quello che fa fuggire la gente normale lontano da noi è la nostra endemica litigiosità , il bisogno costante di identificarci per contrapposizione nei confronti di chi ci sta più vicino, l’incapacità di ascolto degli altri e di interlocuzione con essi, l’intolleranza, la mania di piantar bandierine, la frammentazione spinta fino alla scissione dell’atomo, l’assenza di una visione pragmatica dei processi e la difficoltà a separare l’essenziale dal secondario, lo strategico dal contingente. Questo ci rende incerti e insicuri, come l’Amleto della tragedia, in questi “tempi bolsi e tronfi” in cui ricostruire una prospettiva credibile richiederebbe in primo luogo un taglio netto con pratiche consuete, stili di lavoro e di comportamento improponibili, come in qualche modo, e almeno parzialmente, si era provato a fare nel lancio della Lista la primavera scorsa. E poi una straordinaria mobilitazione di intelligenza, creatività , spregiudicatezza, conoscenza perché il nostro pensiero è oggi insufficiente di fronte alle travolgenti trasformazione della società che vorremmo intercettare: “unire ciò che la crisi e il neoliberismo hanno diviso” è un buon proposito, ma come questo possa essere fatto in presenza di una scomposizione feroce di tutti i soggetti e di tutte le aggregazioni – alla frantumazione del “diamante del lavoro”, come è stato felicemente detto – spinta fino al punto di contrapporne le parti fra loro in una nuova “guerra di tutti contro tutti”, di fronte alla smaterializzazione dei processi produttivi e dei sistemi di relazioni, al primato della dimensione finanziaria su quella produttiva, allo spossessamento dei luoghi tradizionali del conflitto, dobbiamo cercarlo ancora. Allo stesso modo la difesa intransigente della democrazia non solo come principio ma anche come assetto istituzionale, così come è scolpita nella nostra Costituzione, è opera nobile e necessaria, ma non ci possiamo nascondere il grado e la misura in cui il principio stesso di rappresentanza è stato lesionato da processi reali, per certi versi devastanti e purtroppo irreversibili: dalla globalizzazione dei processi non solo economici e comunicativi, ma di comando o come si dice di governance, e dalla totalizzazione di un sistema mediatico pervasivo, multiforme e integrato, a cui occorre dare risposte in avanti, non certo nello scioglimento di quella crisi nel plebiscitarismo del leader più o meno carismatico ma in un di più di partecipazione, sviluppata nei luoghi della vita, al livello territoriale, in forme già in parte sperimentate là dove si sono aperte linee di frattura, conflitti radicati nelle “coscienza di luogo” (si pensi alla Val di Susa) ma che attendono una sistemazione e una riflessione. Per non dire della crisi delle forme organizzative, a cominciare dalla “forma partito”, delle cui dinamiche dissolutive la mutazione genetica del Partito democratico è l’esempio più spettacolare perché lì si rappresenta, in tutta la sua drammaticità . Sarebbe una catastrofe se noi pensassimo di ricostruire una casa (un “piccola casa”) per gli esuli di quel crollo, sulle stesse fondamenta e sullo stesso progetto, senza porci il problema, quello vero, di cosa si sostituisce al modello organizzativo del “partito di massa” che ha dominato l’orizzonte politico novecentesco e che con quel secolo si è inabissato: quale forma di organizzazione della soggettività politica si può immaginare nell’epoca della scomposizione delle soggettività , dell’inoperosità della politica al livello della dimensione nazionale, della crescente difficoltà di ricondurre la disseminazione degli “Io” autoreferenziali e impotenti all’operatività di un “Noi” attivo e consapevole.
Per questo noi non proponiamo oggi un “soggetto politico” già bell’e fatto (o pensato), da “prendere o lasciare”. Proponiamo al contrario un processo – possiamo chiamarlo un “processo costituente” – di lunga durata in grado di proiettare l’esperienza de L’Altra Europa oltre la vicenda, felicemente conclusa, di quella Lista elettorale. Un processo da iniziare subito, questo sì, ma in cui nessuno può pensare di aver già in mano la Costituzione scritta da imporre agli altri, e nemmeno i “lavori preparatori” già compiuti: un processo nel quale davvero si avanzi domandando, forse anche per prove ed errori, e in cui sia ben chiaro il rapporto tra le tappe intermedie e la meta finale che resta, certamente, la volontà di creare quello che potremmo definire, per ora, un “soggetto politico europeo della sinistra e dei democratici italiani”, per sottolinearne la doppia vocazione: la dimensione europea dell’azione strategica e l’apertura a un’ampia area democratica e di sinistra italiana.